Gradi di partecipazione II
La critica istituzionale come
strumento di partecipazione
“Proporrei, quindi, come una prima definizione del termine critica
questa caratterizzazione generica: l’arte di non essere governato
tanto.“
(Michel Foucault: “Illuminismo e Critica”)
Questioni attorno alla dicotomia “pubblico-privato” hanno fatto parte
della critica istituzionale da quando Marcel Duchamp ha cominciato a
decontestualizzare i suoi objet trouvè per ricollocarli in
ambienti d’arte. In un certo senso, il povero Duchamp, che con il senno
di poi si è trovato padre di tanti figli senza aver avuto il
piacere immediato della creazione, può vantarsi anche di essere
stato l’antenato di questo movimento artistico che prese pieno slancio
negli anni settanta1. Daniel Buren esplorò con le sue
installazioni le caratteristiche che contraddistinguono lo spazio
espositivo dagli spazi pubblici, ma anche la differenza fra la
percezione di un visitatore e quella di un passante.,2, Mierle Laderman
Ukeles trasformò in performance artistiche le attività
quotidiane di manutenzione (come le pulizie) che senz’altro si svolgono
anche negli spazi espositivi senza però che qualcuno rivolgesse
loro attenzione3. Marcel Broodthaers, con il suo Museo d’Arte Moderna4,
mise in discussione la scelta curatoriale degli oggetti da esporre.
La trasparenza è rimasta una delle questioni più
scottanti per gli artisti che oggi sviluppano progetti che si possono
definire “critica istituzionale”. La critica evidenzia le pratiche
delle “istituzioni d’arte”, siano esse musei, gallerie, biennali o
altro, con lo scopo di rivelare meccanismi quasi automatizzati. A volte
la critica prova a mettere in luce il background di alcune condizioni o
prassi sulle quali si è poco riflettuto o hanno motivazioni che
volutamente rimangono all’oscuro dei visitatori e degli artisti. Il
compito sicuramente più discusso delle istituzioni espositive
è la scelta degli artisti a cui viene affidata
l’opportunità di presentare il loro lavoro al pubblico.
Dodici anni fa Cesare Pietroiusto mise a fuoco proprio quest’ultima
domanda tramite un progetto realizzato alla XII Quadriennale di Roma.
Alla soddisfazione per esser stato scelto per una mostra che si vanta
di presentare gli sviluppi artistici più significativi dei
quattro anni precedenti si abbinò presto, così
Pietroiusti, il disappunto per il fatto che nessuno degli artisti con
cui lui aveva condiviso le sue esperienze degli ultimi anni si trovava
fra i 170 invitati. Pietroiusti decise di inoltrare l’invito per la
Quadriennale al gruppo di cui si sentiva parte all’epoca: a "Giochi del
senso e/o nonsenso" partecipavano Pino Boresta, Lorenzo Busetti, Sergio
Caruso, Antonio Colantoni, Claudia Colasanti, Edoardo De Falchi, Bruna
Esposito, Marco Evangelista, Alessio Fransoni, Patrizio Pica, Cesare
Pietroiusti, Giuseppe Polegri, Paolo Tognon, Sandro Zaccagnini. Il
gruppo decise – senza consultare né informare i curatori e
gli organizzatori della Quadriennale - di allargare l’invito a chiunque
avesse voluto partecipare. Oltre ad estendere l’invito indistintamente
a chiunque si presentasse, il gruppo aveva anche deciso di non
applicare nessun tipo di censura, e quindi di accettare tutte le
proposte pervenute da artisti e non. Lo spazio concesso a Pietroiusti
da parte della Quadriennale era di 16 metri quadri. Nonostante cio
l’artista e i suoi colleghi riuscirono a posizionare 300 opere di
altrettanti artisti. Nel corso della mostra si aggiungevano
settimanalmente altre opere di artisti che solo visitando la mostra
erano venuti a conoscenza del progetto e dell’opportunità loro
offerta.
La Quadriennale rimase invece intrappolata: il progetto di Pietroiusti
si opponeva palesemente al loro principio di una scelta meticolosa e
impegnativa da parte di un comitato scientifico. Rifiutare il suo
progetto - che scoprirono solo quando era già avviato - avrebbe,
però, significato accettare la discussione su questi principi di
scelta così come impostata dall’artista. Non restava che lasciar
fare agli artisti stessi.
Senz’altro sono tanti gli artisti che nel frattempo hanno continuato a
mettere in discussione le scelte curatoriali – raramente però
con la generosità spregiudicata di Pietroiusti. Anzi, la critica
istituzionale si è diffusa, direi quasi in modo globale, e solo
in casi rarissimi sfocia in progetti artistici che si possono chiamare
propositivi. Un’eccezione è rappresentata da Thierry Geoffrey,
alias Colonel, che apre lo spazio espositivo, per il quale gestisce di
persona le trattative con le istituzioni, ad altri artisti. Ma l’invito
a partecipare non avviene indistintamente ed esiste anche un criterio
di scelta per le opere: per “Emergency Room”5 Colonel ha inventato un
regolamento in base al quale chi vuole partecipare deve firmare
un’intesa. Le regole le detta, quindi, l’artista, e la “censura” viene
effettuata dai partecipanti. Sono loro (insieme ad un coordinatore) a
giudicare se le opere proposte rispettano il regolamento
comunemente accettato. Giusto per mettere in discussione un’altra
pratica museale, Colonel propone una mostra nella quale le opere
cambiano quotidianamente. Gli artisti invitati si vincolano a
presentarsi ogni giorno puntualmente ad un’ora prestabilita con un
opera d’arte realizzata nelle ultime 24 ore. Il regolamento vuole che
si tratti di una risposta all’attualità della giornata
precedente. La produzione di queste opere richiede, come dice Colonel,
“un allenamento del muscolo della coscienza”. Questo allenamento gli
artisti lo svolgono insieme, tramite un sistema di autocontrollo
comune. E’ ovvio che non tutti i media e non tutte le tecniche
artistiche si prestano a questo tipo di produzione - ed è
proprio questa riflessione che incide sulla scelta degli artisti.
Certamente la pratica di Colonel si inserisce in un dibattito artistico
contemporaneo che tende a rendere sempre più permeabile il
confine fra l’arte la vita quotidiana. Nel costruire un regolamento che
richiede la produzione di opere ad hoc e che condiziona preliminarmente
sia le tecniche che i contenuti, l’artista assume il ruolo tanto
discusso delle istituzioni. Con il tentativo di agire con la massima
trasparenza Colonel certamente offre il fianco ad un tipo di
discussione e ad una forma di critica che però è priva
dal peso che grava sui musei che devono giustificare il loro ruolo
pubblico.6
L’interesse di Cesare Pietroiusti, sicuramente l’artista italiano che
con il massimo diritto si può chiamare critico istituzionale,
intanto si è spostato sulle pratiche museali che riguardano
l’altra parte del sipario, cioè i visitatori. Al PAN Palazzo
delle Arti Napoli presenterà un’installazione – performance dal
titolo “Quelli che non c’entrano”: un gruppo di anziani che vengono
pagati per oziare davanti al museo mette il dito nella piaga della
“politica” museale delle istituzioni del contemporaneo. Tutto il mondo
si dedica ai giovani, che oltre ad essere una percentuale della
popolazione italiana in continuo calo, hanno anche tutti gli strumenti
per fruire delle mostre d’arte contemporanea: crescono in un mondo
già digitalizzato. Gli anziani invece, dai quali
dipenderà sempre di più il futuro italiano, rimangono
troppo spesso fuori.
Julia Draganovic